Gúspini: tra le formazioni basaltiche, le anguste brecas, gli ombrosi boschi e le irte creste di Monte Maiori

La settimana scorsa, per scaricare le tensioni accumulate nell’ultimo periodo, ci siamo ritagliati un momento solo per noi scegliendo, per ritrovare un po’ di benessere psicofisico, un percorso escursionistico un po’ tosto, che comunque facciamo abbastanza spesso: il sentiero che da Montevecchio porta a Monte Maiori attraverso le irte creste che costeggiano il picco di  Punta Pubusinu (ne parliamo qui). Nel punto dove a volte ci fermiamo per la pausa pranzo (per intenderci, quello dal quale si vede il testone basaltico di Monte Maiori in primo piano; per chi c’è stato, dove c’è sa cadriga), ci siamo sempre soffermati a osservare, proprio al di sotto, la profonda diaclasi che scende ripida verso il basso e si congiunge, sulla sinistra, alla nota spaccatura del monte. Siamo anche scesi, per esplorarne un breve tratto (giusto una decina di metri o poco più, come dimostra il seguente video), ma siamo subito risaliti, e ci siamo ripromessi di tornare con più calma e con un po’ più di tempo a disposizione.

 

E infatti oggi eccoci di nuovo qui, proprio con l’obbiettivo di arrivare fin laggiú per vedere un po’ cosa ci sarà mai! Per raggiungere la zona, però, decidiamo di percorrere un altro sentiero, che sappiamo essere meno impegnativo di quello che parte da Montevecchio: prendiamo la SP 65 che conduce alle località marine e parcheggiamo nello spiazzo antistante lo stradello che punta verso Genna Flore (qui e qui il resoconto delle nostre precedenti escursioni). Questa che abbiamo davanti è una zona che amiamo davvero, non solo perché i suoi paesaggi sono fonte di ispirazione per alcuni racconti presenti nel nostro libro Unu pipiu malu e àterus contus (effettivamente alcune scene di uno di essi – ma non vi sveleremo quale – è proprio ambientato da queste parti), ma anche perché è proprio qui, risalendo verso le creste, che abbiamo conosciuto quelli che poi sono diventati nostri compagnucci di trekking e amici, Isa e Giulio.

Sono già le 11 del mattino quando cominciamo a camminare sotto un sole cocente, talmente caldo che dopo pochi passi ci rammarichiamo di non aver indossato i calzoncini corti. Oggi, per poter raggiungere più velocemente la diaclasi oggetto della nostra piccola avventura esplorativa, abbiamo deciso di percorrere in senso inverso il sentiero che facciamo di solito, un anello di circa dieci chilometri che si sviluppa, in alto, quasi completamente sulla cresta del Monte Maiori, tra le due selle che lo congiungono da una parte a Punta Pubusinu, e dall’altra al Monte Arcuentu.
Risaliamo il ripido pendio di buon passo perché, dobbiamo ammetterlo, non vediamo l’ora di arrivare alla misteriosa – per noi, ovviamente – fenditura. Il nostro desiderio di scoperta è vigile, palpitante. E soprattutto, cosa da non sottovalutare, sappiamo che in quella zona ci sarà ombra, e fresco; dunque, via! Nel giro di un’oretta ci ritroviamo sulla sella a destra del Maiori e, passando sull’altro versante, e risalendo il costone brullo e roccioso, raggiungiamo velocemente il punto di attacco. La fenditura è a qualche metro sotto di noi: senza pensarci un attimo, scendiamo nel fondo della diaclasi, facendo una sorta di scalata inversa. Invece di proseguire verso il basso alla nostra sinistra, attraverso la strettoia, decidiamo però di aggirare il cocuzzolo che ci si para davanti sulla destra, per provare quindi ad arrampicarci sulla parete opposta a quella dalla quale siamo discesi.
Trovato un passaggio adeguato, procediamo. Risalire il costone roccioso non si rivela poi impresa così impegnativa: certo, non è una passeggiata, perché ci stiamo comunque arrampicando sul basalto, ma per quanto le nostre abilità di scalatori siano pressoché nulle, riusciamo comunque a raggiungere questa bassa vetta, ritrovandoci Monte Maiori di fronte in tutta la sua azzurrognola imponenza. Sotto di noi, verso la pianura centinaia di metri più in basso, il vuoto. In lontananza il nostro paesello, adagiato ai piedi del Monte Margherita e contornato da verdi campagne.

 

La breve scalata di questo picco roccioso ci ha stimolato l’appetito e, per quanto da un punto di vista strettamente panoramico sarebbe senz’altro molto interessante pranzare quassù, percepiamo una sensazione di calore eccessiva e poco gradevole. Perciò, ridiscendiamo verso la diaclasi, dove possiamo riposare all’ombra delle pareti rocciose e degli alberi muschiati. Giusto il tempo di mandar giù due tigelle, e siamo pronti per il clou: via, in picchiata verso la spaccatura. Percorriamo lo stretto e angusto passaggio con non poca difficoltà per la pendenza elevata e il terreno accidentato e scivoloso; procediamo lentamente, tenendoci aggrappati alle sporgenze basaltiche, mentre le nostre ginocchia implorano pietà e nella mente inizia ad insinuarsi una domanda: ma chi si ddu fait fai, a nci calai ingunis a bàsciu? La ignoriamo, e proseguiamo imperterriti, verso il basso, dove solo i cervi più selvaggi osano andare.
Raggiunto lo sbocco del corridoio, ci ritroviamo più o meno nella parte bassa del bosco adiacente il massiccio di Monte Maiori: davanti a noi, la stretta fenditura che lo divide in due e che finora abbiamo potuto ammirare solo dall’alto. Con alcune difficoltà, ci avviciniamo alla stessa, e risaliamo tra le due pareti; dopo pochi passi, però, la folta e intricata vegetazione, composta soprattutto da rovi, ci impedisce di proseguire, divenendo praticamente impenetrabile. Ci soffermiamo un attimo a guardare il panorama sulle verdi campagne del Guspinese, e la cavità nel picco più piccolo di Monte Maiori. Ora che guardiamo da questa angolazione la diaclasi tramite la quale siamo giunti fin qui, ci rendiamo conto che ripercorrerla a ritroso, quindi in ripidissima salita, non sembra poi un’esperienza così allettante. La discesa, e il caldo pomeridiano, ci hanno fiaccato, e mentre ci riposiamo ci viene un’altra idea: risalire il pendio, attraverso il fitto bosco, e raggiungere da qui il sentiero che conduce alla cima del monte. Detto sinceramente, non pare impresa facile, ma perlomeno è tutta in ombra e ci permetterà di poter osservare i numerosi anfratti alla base del massiccio basaltico.

Questa parte di bosco è caratterizzata da lecci di dimensioni ragguardevoli; in particolare ne adocchiamo uno che, con le sue possenti radici, sembra quasi trattenere tutto il terreno circostante, e il nostro pensiero va subito al nostro S’Antigu, ispirato da un altro leccio che si trova non lontano da qui ma che presenta dimensioni addirittura ridotte rispetto a questo.
Procediamo con non poca fatica verso l’alto, sostenendoci agli alberi e alle sporgenze basaltiche. Ci fermiamo più volte, indugiando in varie nicchie e cavità dove ci sembra quasi di sentire odore di cenere, di lava: la bellezza eterna di queste antiche formazioni è indescrivibile. Dopo numerose pause, raggiungiamo il tratto più battuto che conduce alla cima, e in un battito di ciglia siamo in vetta. Ci sediamo, riprendiamo fiato, guardiamo verso il mare e ci crogioliamo sotto il sole pomeridiano, fin troppo caldo per questa giornata di inizio Aprile. È davvero una bella sensazione!
Ma non possiamo sostare più di tanto, perché abbiamo ancora tanta strada da fare. Ridiscendiamo dalla cima e risaliamo in cresta, dall’altra parte. La vegetazione prima è abbastanza rada, ma si infittisce in vari punti: davanti a noi c’erano l’Arcuentu e l’azzurro mare, ma ora sono scomparsi; inoltre, il vecchio sentiero CAI non è più indicato a dovere (anche se potrebbe essere oggetto di nuova manutenzione a breve), e siamo costretti a cinghialare per alcuni metri, fino a risalire su un altro picco roccioso dal quale possiamo orientarci. Identificato il punto migliore dal quale scendere, ci ritroviamo in breve tempo a percorrere il tratto in discesa, in picchiata verso Genna Fiore. Da qui in poi il sentiero è molto semplice da seguire, e forse potremmo percorrerlo anche ad occhi chiusi: procediamo con calma, e raggiungiamo la nostra auto concludendo così l’escursione odierna.
Mentre rientriamo verso casa ci sentiamo leggermente euforici per la giornata appena trascorsa; nonostante la fatica e la stanchezza, ci siamo divertiti tantissimo: questa zona selvaggia e impervia è, a nostro parere, una delle più affascinanti del circondario, anche perché agli escursionisti regala ogni volta qualcosa di nuovo da scoprire.

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